mercoledì 26 marzo 2014

Fu nelle notti insonni || vegliate al lume del rancore

E' già calato il sole, al di là dei tetti, da circa qualche ora.
E' già calato il sole ma Merissa lavora ancora sui propri abiti da rammendare e lavorerà ancora per molto. Ha passato tutta la mattina a rigovernare la casa della propria padrona, il pomeriggio a cercare di cucinare qualcosa con le verdure rovinate dal freddo intenso e imprevisto e adesso rammenda. Questo non è per i padroni, è per i figli, i figli che ricevono cure da lei solo adesso, quando il sole cala, dopo che i resti della cena di due giorni prima sono stati mangiati edigeriti malamente.
Adesso, dopo che tutti quei bambini, troppi bambini, sono andati a letto e non possono vederla china a cavarsi gli occhi sui loro abiti consunti, adesso lei si dedica a loro.
Ha un piccolo paio di braghe tra le mani che deve appartenere al penultimo arrivato della famiglia, perchè l'ultimo è ancora fin troppo piccolo anche solo per porterle, un paio di braghe decenti.

Dio, perchè così tanti figli?

E' una domanda che non ha il coraggio di pronunciare ad alta voce, tanto è blasfema. Una famiglia numerosa è un Paradiso per qualsiasi essere vivente sulla Terra. Eppure ci sono delle volte, molte volte, negli ultimi mesi, in cui Merissa guarda quel gruppo di bambini vestiti male e troppo affamati e si chiede davvero se sia un bene che siano al mondo.
Lei dopotutto ha superato la trentina, ormai è più vicina ai quaranta di quanto le piacerebbe ammettere e la sua bellezza si è consumata a fare figli e lavorare. Non è mai stata una grande cultrice della propria bellezza, è vero, ma ora che l'ha persa in un certo senso le manca, è come qualcosa che è morto, dentro e fuori di lei e che in cambio le ha lasciato solo cinque figli da sfamare.
Forse è la stanchezza, perchè la stanchezza fa diventare tutti più cattivi, ma non le sembra sia stato un grande affare.
Nella camera da letto vuota, che aspetta ancora il ritorno del marito dalla fabbrica, la lampada ad olio rischiara solo la sua postazione, arroccata come una bestia ferita su di una sedia a dondolo, davanti al grande letto matrimoniale intatto. La stanza è povera, quel letto è un lusso che non tutti gli schiavi hanno, un regalo di nozze della famiglia di lei, la sedia l'ha intagliata suo marito. E' tutto fatto con le loro mani, tutto sudato, dietro a ogni oggetto e ad ogni soprammobile c'è del lavoro, c'è la fatica. E non c'è neanche un grammo di polvere, tra l'altro.
Merissa lavora in quella stanza che ha imparato a considerare accogliente, lavora e si consuma le dita, strizza gli occhi per la stanchezza e ogni tanto guarda i piccoli quadretti religiosi appesi dappertutto in camera. C'è n'è uno un poco più grande, proprio sopra la testiera del letto, raffigurante Gesù, che lei all'inizio trovava inappropriato, per le faccende da camera.


"Mamma?"

Un appellativo che ha sentito troppe volte, ma che comunque riconduce subito ad una delle sue creature, senza sbagliare.
Davanti a lei c'è un bambino di circa sei anni che, nonostante il cibo non abbondante e il vestiario modesto ha comunque avuto la sfacciataggine di mettere su due spalle promettenti e un fisico robusto, come i suoi fratelli. Lei si sta già chiedendo come abbia fatto a partorire un cosetto tutto muscoli e ossa robuste, ma c'è altro che la distrae, prima.
"Cosa ci fai fuori dal letto? Domani devi andare con tuo padre, la sveglia è all'alba." dice, in un tono asciutto che non ha maternità. Non si può pretendere maternità da una persona con più di dodici ore di lavoro alle spalle e cinque figli a cui badare. 
"Mamma, posso chiederti una cosa?" il bambino la guarda coi piccoli pugni serrati, le spalle leggermente ingobbite. Sta preparando qualcosa che a lei non piacerà e lo sa già, ma ci sta provando lo stesso, con la stessa testardaggine di un animale male addestrato.
Merissa alza gli occhi al cielo brevemente, per poi riportarli sulle braghe ancora da rammendare. Dopo quelle ne avrà altre, poi magliette, gilet, qualche camicia del marito: sta chiaramente dicendo al figlio che non ha tempo per lui, che non ha la pazienza per ascoltare dei capricci. Non c'è posto per i capricci, in una famiglia di schiavi.
"Mamma, posso rimanere con te, domani?" il tono è così flebile che non attirerebbe neanche la sua attenzione, ma l'eresia di quella domanda è in grado di farla sobbalzare. L'ago trafora due strati di stoffa e punge il dito della donna, non in profondità, ma è abbastanza. E' tutto abbastanza: è abbastanza tardi, lei è abbastanza stanca e tutti quei vestiti da rammendare sono abbastanza per farle acquisire la santità. 
"Yahn, per l'amor di Dio! Vai a dormire, domani devi andare a lavorare con tuo padre!" la sua replica è stizzita, ripetitiva, ma Merissa non sa dare altre spiegazioni, al momento, nè risposte a quella domanda assurda. Ci sono di confini per la comprensione dei genitori e in una famiglia di schiavi il confine è un muro alto, massiccio e tremendamente incombente.
"Ma mamma per favore!" quel piccolo moccioso prende un respiro profondo, il segnale che annuncia una supplica lunga, piena di paura che venga interrotta, "Non voglio andare, ti prego, non farmi andare. Posso stare qui, posso rendermi utile, ti prego mamma, non voglio!"
La sua voce infantile ha un qualcosa che le dà sui nervi, o forse è solo la stanchezza, o i vestiti ancora da rammendare. Ma Merissa è una cristiana, una devota, e Dio insegna sempre la pazienza e la calma. Come Padre Garvier, che non manca mai di ripeterle che prima di rispondere male a qualcuno, bisogna sempre cercare di mettersi nei suoi panni, con l'umiltà di Nostro Signore.
Merissa guarda quel bambino che la sta implorando per ragioni assurde e non sente alcuna compassione, nè compartecipazione per quello stato tanto disperato da risultare sconcertante. Tuttavia, decide almeno di fingere una calma che non ha.
"Yahn." lo richiama, il tono asciutto che non lascia spazio alla gentilezza, ma solo alla sopportazione. E per quel bambino dagli occhi sgranati è un segnale di speranza, nonostante tutto.
"Ti prego mamma. Ho sentito che se fai un errore ti bastonano o ti frustano. Non voglio essere bastonato, mamma, non voglio lavorare, ti prego!" nella sua voce c'è il puro panico e questo rende tutto più assurdo, più alienante. 
Merissa non ha mai discusso gli ordini del padrone o quelli di Dio, nè ha mai messo in discussione la sua buona stella. E' nata in una parte favorevole del pianeta, una fortuna che non tutti hanno, e ha un marito, una casa, dei figli, un padrone mite. Si ripete la lista nella mente due volte, quasi tre, prima di tornare a guardare il figlio, ma il suo sguardo deve avere qualcosa di poco rassicurante, perchè il bambino indietreggia, con la saggezza dell'infanzia.
"Yahn, vai a letto."
"Mamma, per favore..." negli occhi chiari di lui appaiono lacrime di terrore e frustrazione, una frustrazione che la sua giovane età non può capire.
"Vai a letto." la voce di Merissa non si alza, come se non ce ne fosse bisogno. Anzi, peggio, come se non le interessasse.
E' questa consapevolezza che arriva come qualcosa di etereo che fa arretrare il bambino, come se si fosse scottato. L'indifferenza.

Non ci sono proteste contro quella, nè difese, c'è solo la ritirata. Lentamente, quel piccolo uomo non ancora cresciuto si volta e inizia ad avviarsi verso la porta aperta, con la stessa mestizia di un cane rimproverato. Ci sono poche speranze che i suoi fratelli non abbiano sentito, nessuna che sia richiamato prima che arrivi ad attraversare la soglia. 
"Yahn?"
Si volta appena, le spalle robuste che sussultano per la speranza, il miracolo. Le sue guance sono appena bagnate, gli occhi rossi di un pianto silenzioso appena agli inizi.

"Non farti vedere da tuo padre in questo stato. Sarebbe molto deluso."

lunedì 24 marzo 2014

Perché dissi che Dio imbrogliò il primo uomo || lo costrinse a viaggiare una vita da scemo

Al tavolo di Yahn ci sono altri cinque ragazzini, cinque creature di età compresa tra i dieci e i tredici anni, intenti a filare. Nel grande stanzone della fabbrica, ci sono altri dieci tavoli così, in tutto sono undici.
Ci sono approsimativamente sei ragazzini ad ogni tavolo, undici per sei sessantasei. Ad ogni tavolo c'è più o meno la stessa variabile di età che c'è a quello dove lavora lui e il lavoratore più giovane ha nove anni. Il più vecchio quindici.
Quindi la media d'età stimata di tutto lo scompartimento è di dodici anni.
Dodici anni.
Vuol dire che lui è appena sotto la media, ma è comunque tra i più grandi e molto presto, con buone probabilità, sarà trasferito ad un altro scomparto della fabbrica, perchè la corporatura media, ammettendo che si possa calcolare in termini statistici, è di...


Mi sanguinano le dita. Mi sanguinano le dita, fa male. Perchè non posso avere dei cerotti? Perchè non posso chiedere di essere visto da un medico? Potrebbero cadermi le mani e nessuno se ne accorgerebbe. No, forse se ne accorgerebbero vedendo che ho smesso di filare...



La corporatura media si può calcolare, tutto si può calcolare, anche quanti giri sta facendo la piccola ruota a manovella, quanti giri ancora farà, quando si romperà. Ce ne sono sei, una per ragazzino, e tutte girano ad una velocità stabile, con un ronzio di sottofondo che sembra quasi quello di un insetto, o di un motore silenzioso. Tutte ansieme compongono un piccolo concerto, il padrone lo definisce con orgoglio "Il suo concerto di operosità e benessere".



 Operosità e benessere, operosità e benessere, operosità e dita rotte e collare al collo e freddo. Fa troppo freddo qui, il ferro del collare punge, fa male. Si sta attaccando alla pelle, lo so, e succederà com'è successo a Jean, che gli dovranno staccare la carne e farà ancora più male...



  Le dita del ragazzino tremano, i suoi occhi lucidi si sollevano dal suo lavoro e guardano il resto della sala attraverso i raggi della ruota che continua a girare. In quel magazzino le pareti sono grigie, metalliche e hanno l'odore della lamiera bruciata. Per terra c'è uno strato di sabbia e lana scartata, di terra e di sporco, ma ora la maggior parte del pavimento è occupato dalla brina. Non c'è riscaldamento in quella parte della fabbrica e la porta viene aperta spesso e gli spifferi passano impietosi con l'ululare del vento. Fuori nevica, ma dentro è come se il tempo si fosse fermato.

Dalle bocche dei ragazzini escono piccole volute di vapore: ognuno di loro ha un collare al collo, alcuni iniziano a mostrare i primi segni dei geloni, sotto la luce impietosa di undici lampadine che oscillano sopra i tavoli e allungano tutte le ombre.
Nessuno di loro ogni tanto guarda al di sopra della propria ruota, nessuno di loro sbircia il lavoro del proprio vicino. Yahn vede i capelli arruffati di ognuno, il profilo del naso, un accenno di sguardo che tuttavia non incontrerà mai il suo.


Sei strano, strano, strano. Loro non pensano. Non fanno i conti, a loro non interessa quanti tavoli ci sono in una stanza, quanti ragazzini ci sono ai tavoli, non interessano le medie, le statistiche, i numeri. Sei strano. Strano, strano, strano, strano...



 "Occhi sulla ruota ragazzo."

E' una frase senza alcuna fantasia, ma non ci vuole originalità per spaventare un ragazzetto di dodici anni. Yahn china di nuovo il capo e incassa la schiena, facendo rimettere in moto la ruota, sperando che questo basti ad evitare un colpo. Di solito funziona, ma ci sono delle variabili, variabili che neppure lui riesce a calcolare, fattori imprevedibili come l'umore del guardiano di turno, il numero di bastonate inferte fino a quel momento, la presenza del padrone.
Nessun altro ragazzino si gira quando lui viene redarguito e nessuno si girerà nel caso venga bastonato, perchè è così che funziona, in fabbrica.


Così funziona: tu lavori, la ruota gira, la lana viene filata. Se non lavori vieni bastonato, se vieni bastonato fa male. Tanto male. E se fa male potresti non essere in grado di lavorare e se non sei in grado di lavorare ricevi più bastonate e la tua schiena si spezzerà, com'è successo ad alcuni.



Il colpo non arriva, la ruota riprende a girare ad una velocità sostenuta, la lana filata continua ad accumularsi e il guardiano se ne va. Tornerà a fare il giro probabilmente tra qualche minuto, tre minuti e trentasette secondi per essere precisi.

Nessuno si muove, nessuno tossisce, nessuno parla. Mancano ancora molte ore alla fine del turno e l'unico modo per impiegarle è cercare di calcolare quante volte passerà il guardiano per il suo tavolo, cercando di non pensare a quanti colpi di bastone caleranno nel frattempo. Calcolare senza pensare a tutto il resto, ignorando la voce che non può davvero ignorare, perchè è la sua.
E lui ha ragione.


Mancano tre ore.

In ogni ora ci sono sessanta minuti.
Mancano centottanta minuti.
In centottana minuti il guardiano passerà circa sessanta volte all'incirca.
In quelle sessanta volte...


...