martedì 18 febbraio 2014

Tu prova ad avere un mondo nel cuore || e non riesci ad esprimerlo con le parole

C'è un cielo congestionato, sul paese, un cielo pieno di nuvole che non vogliono dare pioggia, nè neve, nè vento.
Non c'è nulla che lavi via il disastro portato dalle guerra, nulla che dia sollievo ai corpi lasciati dietro dalle battaglie o dalle carestie. Ai morti, in effetti, non importerebbe di marcire nella neve o all'asciutto, ma per i vivi lo spettacolo migliorerebbe molto.
E' inverno e Yahn ha diciassette anni, la guerra dura da tre e giungerà alla sua conslusione nel giro di due anni, ma questo lui non lo sa ancora.
Quello che sa è che è dovuto passare davanti ad una sfilza di bare ordinate, fingendo che in una di esse ci fosse il corpo di suo fratello, anche se nessuno ne è davvero sicuro.
Non è stato neanche sicuro che lui fosse morto davvero, in quell'ambiente così strano, pieno di casse lucide, di genitori in lacrime, di persone stranite.
Fantasmi.
La sua famiglia ha destato qualche perplessità: troppo numerosa per essere composta da persone libere, su Clackline, troppo mal vestita. Gli schiavi di solito non si offrono volontari per la guerra, non vanno a morire in una lotta diversa da quelle che scoppiano tra padrone e padrone.
"E' la Guerra, Yahn. Quella vera. Potremmo fare qualcosa, l'hai detto sempre anche tu."
L'aveva detto, è vero, ma con "qualcosa" lui non intendeva questo, non intendeva le battaglie, nè i fucili, la morte o il dolore.
Ma suo fratello non si era spinto ad ascoltarlo in maniera approfondita, non aveva sentito davvero i suoi discorsi su una vita migliore.
Yahn lo capisce solo adesso, mentre è intento a guardarne la bara che probabilmente non contiene davvero il suo corpo. Mentre parlava di quei sogni di un avvenire senza schiavitù, non si curava davvero che suo fratello capisse quello che lui voleva comunicargli. Era un ragazzino e l'altro era l'unico che fosse disposto realmente a starlo a sentire, a dargli il beneficio del dubbio, a non guardarlo come se fosse un ospite mancato di un qualche costoso strizzacervelli.
"Non è questo quello che ci aspetta per sempre, giorno dopo giorno, se non vogliamo"
Era una delle sue frasi preferite, quella che più di tutte gli dava quasi una senso di soddisfazione, come se potesse davvero decidere del proprio destino.
Suo fratello maggiore aveva davvero deciso: il forte primogenito, nell'età perfetta per cercare una moglie e sistemarsi nella casa di un buon padrone, si era dato alla guerra.
La loro madre aveva imprecato per la prima volta in vita sua, il padre non aveva detto nulla ed era semplicemente uscito di casa.
Non si può fermare un prode volontario per la guerra, dopotutto.
Nessuno gli aveva fatto davvero cambiare idea, neanche Yahn: lui, anzi, aveva ricevuto un'occhiata sdegnosa, di quelle che si concedono ai traditori, quando si era schierato dalla parte della madre.
Dieci anni dopo, Yahn sarebbe stato oggetto di quella stessa ira materna, per gli stessi motivi, e avrebbe causato la stessa frustrazione nei suoi genitori perchè non avrebbe permesso loro di fermarlo.
Ma lui non poteva sapere neanche questo, allora.
Non ci sono grandi cerimonie funebri, durante la guerra, nè particolari pianti: sembra tutto un poco inutile, persino la vita, quando muoiono così tante persone attorno a te.
Per Yahn tutto questo non ha senso, non hanno senso le bare, o quelle condoglianze ufficiali, o la fila di persone che attende di vedere i propri caduti. Non ha senso neanche il tragitto verso casa, sotto il cielo che non smette di illuminare tutto senza dare nulla in cambio. 
Suo padre si rifugia nel cortile, sua madre in cucina.
Non c'è nessuno che resti con i sei figli rimasti, come se non fossero neanche molto importanti, come se fossero morti anche loro.
Forse è così, ragiona Yahn, forse sono tutti morti e non lo sanno, bloccati in quella specie di limbo dal cielo opprimente.
E' lui il primogenito, adesso, quindi sa che deve dire agli altri cosa fare, ma ha lo sguardo ostile della sorella piantato sulla schiena e sa che non riuscirà a fare nulla. Piuttosto si avvia verso il cortile, anche lui, seguendo il saggio esempio del padre, anche se nessuno dei due ha voglia di tenere compagnia all'altro.
Sa che suo padre non piangerà, non si lamenterà, non dirà nulla: rimarrà solo seduto sul ceppo su cui lui e suo figlio tagliavano la legna assieme e guarderà la sua accetta come se fosse davvero il corpo che non giaceva in quella bara.
Yahn guarderà il cielo finchè non si metterà a nevicare, finalmente, permettendo ai vivi un poco di sollievo e ai morti meno disonore.
Non parlerà mai più delle idee chiuse nella sua testa.

venerdì 14 febbraio 2014

Vedo gli amici ancora sulla strada || loro non hanno fretta.

Ogni tanto uno si chiede cosa spinga una persona a cercare quello che non ha.
In realtà no, non ce lo si chiede se si ha qualcosa da fare, ma nei momenti in cui il cervello di Yahn non lavora per motivi validi, si mette a fare queste riflessioni. 
Perchè si cerca quello che non si ha?
E' una domanda banale e lui lo sa bene: perchè è così, perchè la vita non ti lascia tregua, perchè l'essere umano non ti lascia tregua, o Dio, o il caso, o il Karma.
Mentre gira per le strade meno lussuose di Capital City, la domanda sembra assumere una sfumatura più valida e dai contorni leggermente esasperati, come se a porla fosse una vecchia domestica stanca di fare le pulizie.
"Benedetto ragazzo, hai fatto il diavolo a quattro per uscire di qui, mi spieghi perchè ci torni?"
Il fatto che il suo cervello assuma la voce di una vecchia domestica stanca della vita dà da pensare, tra l'altro.
Yahn si guarda attorno e si sente stranamente a casa tra quelle strade, strade su cui si affacciano vetrine meno lussuose, ma semplicemente normali, strade con della sporcizia, strade in cui le persone possono girare vestite male o in preda a qualche sbornia.
Strade, insomma.
Non gli mancano, questo no, perchè sarebbe pazzo a sentire la mancanza di una cosa simile, ma in un certo senso ogni tanto sente il bisogno di tornare qui.
Il che è come dire che ne sente la mancanza, ma nella sua testa c'è tutta la differenza di questo mondo.
Convinto lui.
"Hai mica da accendere?" gli bofonchia qualcuno.
A lui ci vuole un poco di tempo per capire il senso della domanda: nei salotti bene è un classico sentire quel metodo di approccio, ma nelle strade e con quel tono biascicato tipico di chi non è sobrio da giorni, l'associazione con le manovre di rimorchio suona male.
Gli ci vuole molto meno per capire come rispondere, senza inchini, senza sorrisi, ma con una semplice scrollata di spalla, "Nope"
L'accento di Clackline gli fa calcare involontariamente sulla "p", ma l'uomo non pare esattamente abbastanza lucido da accorgersi della cosa.
Mentre quello si allontana bofonchiando qualche insulto (diretto a chi non si sa), il ragazzo si rende conto che basta davvero dannatamente poco per recuperare le vecchie abitudini.
Quanto gli ci vorrà per essere in grado di nuovo di prendere in mano un forcone e minacciare di infilzare con esso il petto di uno schiavo?
Potrebbe sconvolgere qualcuno dei suoi clienti, o probabili tali, vederlo mulinare un forcone imprecando in Escravit. La scenetta avrebbe anche qualcosa di comico: smoking, forcone e imprecazioni, ottimo.
La verità è che conosce la maggior parte delle persone che abitano da quelle parti e non ne conosce davvero nessuna. Quel posto è stato il Limbo dei suoi primi due anni a Horyzon e il ragazzo non è mai stato tanto lieto di andarsene. Se non fosse per il fatto che in questo momento ci vorrebbe tornare, rinchiudersi in una delle stanze povere per studenti o lavoratori in affitto e uscirne per il prossimo inverno.
Magari per quello ancora dopo.
Non conosce chissà quante strade, da queste parti, molte meno che nei quartieri per bene, ma le ricorda tutte e ricorda tutti i locali, tutti i bar, tutti i piccoli ritrovi in cui lui è sempre stato trascinato.
A quest'ora i suoi vecchi coinquilini saranno già a festeggiare non si sa cosa: basta poco, a loro, per celebrare, come l'affitto pagato, il lavoro che continua, un colpo di fortuna che altri definirebbero quotidianità.
Un altro punto di vista, qualcosa che, volente o nolente, a Yahn suona molto più famigliare.
"Benedetto ragazzo, stai davvero spiando la serata di alcuni tuoi conoscenti?"
E sto davvero ancora pensando con la voce di una petulante domestica? Forse l'idea di frequentare uno psicologo non era poi malvagia.
Un giovane più o meno suo coetaneo gli passa a fianco ridendo e tirando un'altra ragazza, forse più giovane, forse no. Il volto di lei gli è sconosciuto, ma quello di lui no: era un amico di amici, se ben ricorda, tale Garl... Domic...Daniel?
Forse Daniel è più probabile.
L'ha probabilmente visto ad una festa, in un appartamento come tanti altri, durante il classico giro di presentazioni, tra decine di strette di mano. Ricorda la sua voce, più che altro perchè rideva sempre, ad ogni singola battuta, in maniera sguaiata, ma sincera.
A quanto pare, quel modo di ridere faceva impazzire tutte le ragazze più giovani, cosa che lui non ha mai appurato.
Sì, va bene, sta spiando la serata di alcuni suoi conoscenti e tutto ciò è patetico, specie perchè potrebbe starsene in qualche locale delle strade bene.
Da solo.
Prima che la vocina petulante parta di nuovo, un'altro suono, questa volta reale, lo distoglie dal suo flusso ubriaco di pensieri.
"Hai da accendere?"
Stavolta un ragazzo della sua età, forse di qualche anno più grande, lucido o abbastanza esperto da riuscire a contenere la sbronza.
"Yep." di nuovo calca sulla "p" senza manco accorgersene, mentre tira fuori dalla tasca un accendino che si è ritrovato in omaggio dopo una delle tante serate di festa in uno dei tanti appartamenti.
"Ma sai che ne avevo uno uguale?"
Yahn scruta il giovane: conosce anche lui? Forse è lui Daniel, in effetti, Daniel aveva lo stesso naso schiacciato.
"Probabilmente te l'ho fregato io." risponde e il ghigno gli viene naturale, sul volto.
"Figlio di... offrimi da bere, va."
Yahn sa che il costo degli alcolici qui è parecchio basso: qualsiasi cosa prenderà l'altro, sarà davvero un prezzo equo per avergli fregato l'accendino. Perchè se lo porta ancora in tasca, poi?
"Right." probabilmente alla Casa inorridirebbero nel sentirgli chiudere tanto le vocali, ma le probabilità che lo riconoscano così conciato in un posto in cui i paparazzi non girano, ma al massimo si ubriacano, sono infime.
Ma Celia probabilmente gli farà una lavata di capo perchè domani mattina la sua persona trasuderà di odore di alcool e sigarette e questo non è fine.
Non lo è, in effetti, ma quando Daniel, o il tizio dal naso schiacciato, gli mette una mano sulla spalla e comincia a parlargli di qualche donna (o uomo, non si capisce) che lo sta tormentando, è troppo tardi per tornare nei quartieri bene, a fare la sua serata bene.
"Almeno vedi di non bere, benedetto ragazzo, perchè poi sa come va a finire."
Sì, è decisamente il caso di preoccuparsi.

martedì 11 febbraio 2014

Fui chimico e no, non mi volli sposare || Non sapevo con chi e chi avrei generato

Sentire l'accetta abbattersi sul ceppo fa ancora uno strano effetto: è un suono secco, vibrante, che rimbalza nello stomaco. Non un rumore gradevole, ma il cortile è l'unico luogo pacifico.
In casa c'è il resto della famiglia, tutta la famiglia al completo, tutta intenta in lavori domestici di vario tipo.
"Chi non lavora non mangia" è il motto della madre di Yahn da tantissimo tempo e nessuno l'ha mai messo in discussione.
Le due sorelle sono state impiegate nel lavoro infinito di pelare le patate, che sarebbe una mansione che Yahn non disdegnerebbe, se non fosse considerata prettamente da femmine.
Poi ci sono i due fratelli, presi nella sistemazione dei tavoli, assieme al marito di Favrielle, uno schiavo incredibilmente delicato, per aver lavorato per tanti anni in una segheria. Sembra quasi esistere a riprova che i clichè sui grossi taglialegna sono errati, con quelle sue braccette minute e il fisico esile: una compagnia ben strana accanto a tutti gli altri maschi Fharsen, ben piazzati per costituzione.
Persino Favrielle, crede Yahn, supera in robustezza il marito e, difatti, è lei che strilla contro i tre mocciosi poco vestiti e sporchi che scorazzano per la casa, portando la legna appena tagliata vicino al grande camino.
Yahn starebbe volentieri coi fratelli, ma Auguste ha approfittato di una qualche frase del marito stecchino per lanciarsi in una filippica contro qualche padrone, come sempre. I discorsi politici del mediano della famiglia non gli sono mai piaciuti, per quanto ormai sia abituato ai peggiori turpiloqui da quando è del mestiere.
Un tempo Yahn credeva che il fratello avrebbe condiviso con lui quell'insofferenza strana e fuori luogo per Clackline, che sarebbe stato dalla sua parte quando una frase inopportuna sfuggiva dalle sue labbra e tutti i volti della famiglia lo fissavano con tacito stupore e dissenso, come se fosse un animale da zoo fuori posto. Ma la rabbia adolescenziale di Auguste si è trasformata in un qualcosa di più accettabile per la società, una foga che segue gli schemi, una volontà di parteggiare per il proprio padrone e di accettare di massacrare altri schiavi perchè appartengono ad una famiglia rivale.
In pochi anni, Yahn ha capito che la sua strada si era allontanata di molto da quella del fratello e da allora schiva le sue filippiche.
Rimane solo suo padre, un uomo grosso e taciturno con cui non c'è mai stato un vero dialogo per mancanza di interessi comuni. Ma lui apprezza un buon lavoratore e Yahn lo è, per cui ogni volta che il ragazzo era a casa, si rifugiava nel cortile assieme al padre, ad aiutarlo a spaccare legna, ad aggiustare mobili per i vari padroni che si sono susseguiti, negli anni. Non hanno mai parlato davvero, ma c'è sempre stato un poco di affetto nello sguardo del capofamiglia, un tacito consenso che negli altri membri Yahn non ha mai trovato.
Questa è la sua prima visita da quando se n'è andato, due anni fa, e il giovane non è affatto sorpreso nel trovare tutto esattamente come l'ha lasciato. Sul volto del padre c'è qualche ruga in più, qualche cicatrice fresca gli segna gli arti, cicatrice su cui lui non ha voluto sapere nulla e su cui non gli sono state date spiegazioni.
E' capitato in un giorno di festa e nei giorni di festa gli schiavi non lavorano per nessuno, ma faticano ancor di più per loro stessi, per preparare i pranzi sacri dopo l'ancor più sacra funzione.
Yahn è ateo, ma ancora non ha avuto il coraggio di dirlo ai suoi genitori e ancora si reca alla funzione settimanale, che sia con loro o meno.
Sembra strano, per un membro della Shouye, aver paura di dire una cosa simile, ma la verità è che a volte la donna di casa spaventa persino qualche giovane padrone.
Un altro colpo di accetta, altri pezzi di legna che cadono giù.
Il ragazzo prende altri ciocchi, ne sistema uno sul ceppo e gli altri lì vicino. E' ricoperto di terra, polvere e sudore, un miscuglio poco raffinato e decisamente poco da Xinshou. Se i suoi colleghi illustri lo vedessero ora, probabilmente non lo riconoscerebbero, ma al ragazzo sta bene così.
"Non dovresti fare lavori più fini?"
La voce del padre lo sorprende, è la sua prima frase da quando è tornato, perchè nessun "Bentornato" è uscito dalle labbra dell'uomo.
"Non importa." la sua risposta è sintetica, anche se ci sarebbero fin troppe spiegazioni da dare, fin troppi discorsi che suo padre non capirebbe.
"Mh."
Un altro colpo secco.
Yahn comincia a pensare che la differenza tra il suono di un ciocco diviso a metà e quello di una testa separata di netto dal corpo non sia poi così marcata.
"A tua madre non piace il tuo lavoro." l'annuncio del padre lo sorprende mentre nella sua testa hanno cominciato a sovrapporsi immagini di ceppi tagliati sanguinanti, con facce intagliate raggelate nell'atto di lanciare un urlo agghiacciante.
"E' quello che voglio fare." replica, di nuovo troppo sintentico.
E' un lavoro prestigioso.
Enormemente ben pagato.
Mi permetterà di fare qualcosa di utile, nella mia vita.
E soprattutto mi ha permesso di andarmene da questa landa desolata in cui mi rifiuto di nascere, invecchiare e morire come te, papà.
Nel momento in cui il pensiero più cattivo gli passa per la testa lui serra le labbra e guarda altrove, improvvisamente molto concentrato nella sua mansione di sistemare il prossimo ceppo urlante da tagliare.
"Ti sta cercando moglie."
Questo gli fa alzare il capo.
Suo padre lo guarda dall'alto, attraverso due sopracciglia spesse e ingrigite, con quegli occhi uguali ai suoi. E' preoccupato, confuso, triste: in realtà condivide l'opinione della moglie, ma conosce bene il figlio e sa che è troppo tardi.
"Non posso avere famiglia, papà."
"Lo so."
"Niente moglie, niente figli. E neanche una relazione esclusiva, se mamma se lo stesse chiedendo. Per favore." non si sa per cosa lo stia pregando, ma lo fa ugualmente.
"Le parlerò." decreta l'uomo, scrollando le spalle larghe, prima di caricare l'ennesimo colpo. Ma Yahn sa che non lo farà: per la sua famiglia lui è il primogenito, o almeno lo è diventato dopo la morte di suo fratello maggiore, da qualche parte in una qualche battaglia per gli Indipendentisti. Come se morire per i padroni non fosse già abbastanza.
Come primogenito, Yahn avrebbe dovuto sposare una brava donna, fare tanti figli come sua sorella e tramandare il cognome e l'orgoglio della famiglia.
Ma lui ha pensato che il cognome e l'orgoglio della famiglia non fossero davvero utili, che potessero davvero essere ricordati per qualcosa se lui se ne fosse andato, se avesse preso un'altra strada. Quando ha comunicato la sua decisione di entrare alla Shouye, due anni prima, la sua famiglia anzichè congratularsi ha quasi indossato il lutto.
Sembrava quasi che avesse detto loro che si sarebbe fatto prete: anzi, il paragone è sempre suonato vagamente azzeccato, per Yahn, dal momento che, come un uomo di Chiesa, se n'è andato lontano dalla famiglia a favore di una posizione illustre che nessuno, nessuno al mondo, avrebbe mai potuto negare ad un figlio.
E' stata la nomea della Shouye e il fatto che i suoi membri fosse illustri e rispettabili che ha impedito ai suoi genitori di proibirgli di prendere una decisione simile.
Ci sono state grida da parte del fratello, pianti da parte della madre e della sorella minore e un vago e gelido disappunto da parte di sua sorella maggiore.
"Stai bene, sì?"
Suo padre non è mai stato bravo ad esprimere i suoi sentimenti, caratteristica che anche il figlio pare assumere quando è in sua presenza.
"Sì papà." dopo qualche attimo di silenzio, interrotto solo dal solito calare di accetta, lui si rende conto che forse dovrebbe restituire quella premura, "Voi state bene?"
I suoi occhi vanno a finire inevitabilmente sulle cicatrici del padre, quei segni freschi che avrebbe sperato di non rivedere più sul corpo dell'uomo. Chi potrebbe picchiare una persona di mezza età? A che scopo?
Gli schiavi si abituano alle punizioni corporali quando vedono i loro genitori maltrattati per la prima volta: Yahn si ricorda ancora del bastone che calò sulla schiena del padre, quando aveva cinque anni. Non ricorda chi l'abbia brandito, non ricorda perchè, ma ricorda il colpo, ricorda l'espressione dell'uomo, ricorda sua madre.
E ancora oggi il suo stomaco si contorce nel vedere quei segni.
Il cenno del padre gli fa capire che sì, la famiglia sta bene, anche se per lui "Bene" potrebbe semplicemente voler dire che non ci sono stati morti, menomati, feriti o ammalati. Il minimo indispensabile, ma che da alcune parti di Clackline vuol dire "Stare bene".
"Hai bisogno di soldi?" una domanda sciocca, da fare ad un membro della Shouye, una domanda che fa alzare di nuovo lo sguardo a Yahn per fissarlo sul volto del padre per qualche secondo.
Sa che non sta scherzando e sa che non sta pensando che lui sia tornato solo per chiedere dei soldi, ma lo stesso deve controllare.
"No papà."
"Mh."
Lui prepara l'accetta di nuovo e Yahn sa che la conversazione è finita.
Da dentro casa, arriva ovattata la voce alterata di suo fratello, preso in un'animata discussione contro un padrone, finchè sua madre non si intromette, silenziando tutti, bambini compresi, almeno per un minuto buono.
Quando suonano le campane nella chiesa vicina, il pasto è praticamente pronto e non ci sono più teste da tagliare.