lunedì 2 giugno 2014

Soltanto una legge che io riesco a capire



La Shouye è come una moglie che non ti tradisce mai, la donna che ti aspetta a casa, con le sue regole, con i suoi ritmi, con i suoi doveri. Ci sono volte in cui vuoi scappare, illuderti di non avere alcuna fede nuziale al dito, ignorare le clausole rigide e soffocanti del contratto che hai siglato di tua spontanea volontà.
Di tua spontanea volontà.

Non sei uno schiavo, adesso?

Nascondi la fede, giri le spalle alle regole, esci di giorno e ti illudi di essere un ragazzo qualunque, forte del potere, dei soldi, forte di qualsiasi cosa. Esci e hai le tue scappatelle, fingi di essere un uomo libero, qualcuno che può permettersi di sognare, anche quando non è così.
E' in piedi in mezzo ad un salotto, un salotto vuoto, pieno di quadri traboccanti arte e raffinatezza e denaro. La pittura non è mai stata nelle sue corde né nella sua fede. Non è un bravo critico o un bravo praticante, sa solo attendere di fronte alla tela già perfezionata e accettare ciò che vede e ciò che non riuscirà mai a vedere. 
La Shouye è davvero come una moglie, una donna che ti fa la predica quando torni sbronzo, quando rincasi tardi. Quando hai l'amante.

Pensi che riusciremmo ad essere amici?

La Shouye non ti giudica, ti attende con pazienza perché sa che tornerai, prima o poi, tornerai incattivito, sfiduciato, solo. Tornerai quando avrai chiaro che nessuno può amarti quanto lei, che nessuno può accettarti quanto lei, che non c'è nessuno, fuori, su cui tu possa fare affidamento.
O forse sì.
Di fronte a lui, sulle tele oscurate dalla penombra, prendono vita diversi ritratti, diverse scene.
Elian in ospedale.
Virginie su quella panchina, nei giardini.
Daphne nelle cucine.
Lui, mentre è solo un ragazzino di fronte ad un uomo raffinato che cerca di farlo diventare un essere civile. 
Lui mentre mostra le sue debolezze, mentre chiede della sua famiglia.
"Penso a mia madre"
Ricorda di averlo detto. Un'altra scappatella, un'altro tentativo di fuggire, anche se ancora non aveva alcuna fede da nascondere.
"Lei di certo non pensa a te. Starà facendo la schiava, per qualche bella casa."
Non aveva risposto, a quella frase, ma ricorda di aver sentito gli occhi inumidirsi, come li sente ora. 
"Dimenticala. Lei di certo l'ha fatto. E quando sarai nella Shouye, ti potrai comprare una madre nuova".

Non ha la forza di urlare, mentre realizza che non ha potuto fare neanche questo: non ha una madre, non ha una famiglia, non ha neanche un'amante. Ha solo una moglie troppo gelosa, un matrimonio troppo stretto e una serie invidiabile di rifiuti, esattamente come ogni dannato membro di quella Casa.
Lui sa di non aver esaurito le sue promesse, di non aver imboccato il vicolo cieco, ma intravede la fine di tutto questo. All'orizzonte, in lontananza, vede il muro che non potrà scavalcare e sa che prima o poi ci sbatterà contro.
E lo sa anche la Shouye.
Solo che lui continuerà a scalpitare, a correre, mentre lei rimarrà lì, ferma, paziente, persino compassionevole, pronta a mormorargli parole di conforto quando lo troverà in ginocchio, esausto, senza più energie per continuare.

You're an angel

Ha ancora una partita da giocare, un'altra in cui barare fino a che non sarà a corto di assi. Mister Hoggard gli direbbe che non c'è alcun senso in una lotta che sai di non poter vincere. Non puoi combattere la schiavitù, non puoi combattere la Shouye. 
Nel silenzio colmo di eleganza, il suo sussurro irato suona tremendamente osceno.
"You're a huge bitch, ya know?"
Se non fosse impossibile, giurerebbe di aver sentito una risata, in risposta.

domenica 11 maggio 2014

Per questo giurai che avrei fatto il dottore || e non per un Dio ma nemmeno per gioco



Nel salotto profumato di casa Hoggard, si assiste al periodico scontro pomeridiano a cui tutti i domestici sono ormai abituati. Domestici, non schiavi, perché nella magione nessuno porta il collare e nessuno chiama il proprietario "padrone". La più anziana dello sparuto gruppo di camerieri, Miss Gevrette, ha imparato a servire il the alle sei e non alle cinque, per non finire vittima del fuoco incrociato fatto di parole aspre, disappunto e rabbia libera.
Miss Gevrette non capisce perché Mister Hoggard abbia preso con sé un ragazzetto dei campi, un giovane ancora maleodorante di sudore e sangue e crudeltà, uno di quelli con l'odio nello sguardo e i modi silenziosi e ostili. L'ha portato qui come un animale e nessuno riusciva a capire quanti anni avesse, da dove venisse o perché fosse in quel luogo. 
Ci è voluto qualche istante e nulla più per comprendere che neanche lui sapeva queste cose.
Miss Gevrette non capisce molte cose del signore per cui lavora, ma accetta e basta: accetta la sua volontà di non prendere più domestici, accetta di non poter vincere sempre la sua battaglia contro il disordine e la polvere, accetta i soldi che lui le dà come stipendio ogni mese, come a tutti gli altri domestici. Mister Hoggard non sa che alcuni dei suoi colleghi più giovani si rifiutano di toccare quel denaro, sporco, offensivo, ma lei mette da parte e distribuisce ai più accomodanti, o risparmia per qualche pasto più abbondante. 
Ha accettato anche quel ragazzino, sebbene abbia dovuto farlo tenere fermo dai due domestici più robusti per togliergli il collare, per medicargli le ferite, per convincerlo a mangiare. La pazienza di Miss Gevrette è grande, ma più parlava con questo giovane e più aveva l'impressione di stare sprecando il suo tempo con una bestia ottusa.  Quando Mister Hoggard lo ha lasciato libero di vagare per la magione, senza assegnargli alcun lavoro, neanche allora la povera cameriera ha protestato, ma ha badato bene a tenergli lontani i domestici più giovani, a memorizzare i suoi percorsi, a capire gli orari da evitare.
Non ci riesce mai del tutto, povera Miss Gevrette, perché dopo tanti anni, nonostante accetti tutto questo, la preoccupazione la porta ancora ad accostarsi alla porta chiusa del salotto, per ascoltare. Per cercare di capire.
Il litigio è già esploso e le parole aspre si infrangono contro il legno solido dietro cui la donna ha trovato riparo.

"...a cosa SERVE?"
la voce del ragazzino è rabbiosa, ma stranamente giovane, quasi morbida: la prima volta che la cameriera l'ha sentito parlare non riusciva ad abbinare quel tono basso a quell'aspetto ostile.
"Serve al tuo futuro. Serve a diventare una persona migliore."
Disappunto. E' un'emozione che una vecchia domestica sa riconoscere molto bene e che sospetta sia chiara anche a quella piccola bestia.
"COSA NE SAI, TU, DEL MIO FUTURO? COSA NE SAI DI QUALSIASI COSA!!!"
" Ne so molto più di te. E abbassa la voce, urlare è contrario all'Etichetta."
"NON ME NE FREGA UN CAZZO DELL'ETICHETTA!"

A Miss Gevrette per poco non prende un colpo, alle sue coronarie già indebolite dall'età e da una mentalità troppo conservatrice per tollerare un tale vocabolario. La sua mano corre alla maniglia, ma lì esita, mentre lo scontro prosegue. La voce di Mister Hoggard si fa carica di sdegno, tanto da far sperare alla donna in una condanna definitiva, ma non c'è nulla di tutto questo nelle sue parole, solo l'ostinazione di un ideale che lei non comprende.

"Dovrebbe importartene, invece. Il Core si basa sull'Etichetta."
C'è un silenzio pesante, in cui a Miss Gevrette pare di sentire il respiro affannoso del ragazzino. O forse è il suo.
"Io odio il Core. E odio i suoi abitanti. Odio le loro maniere, odio..."
Mister Hoggard lo interrompe in qualche modo: la vecchia sente solo uno sbuffo contenuto, ma riesce quasi a vederlo agitare una mano, in maniera seccata.
"E cosa risolvi, odiandoli? Cosa risolvi, stando qui ad urlarmi contro? Ti sembra forse che la tua situazione sia cambiata, dall'inizio di questa conversazione?"
Silenzio.
"Ovviamente no. Odi il Core? Cambialo. Cambia la società, cambia il mondo attorno a te."
Si sente un rumore di sedia che viene scostata, un suono attutito dai tappeti che ricoprono il pavimento del salotto, un suono che fa quasi scostare Miss Gevrette dalla porta. Ma non è verso di lei che Mister Hoggard si è diretto, non è verso l'uscita e la fuga da quel ragazzino rabbioso. Mister Hoggard, dopotutto, non fugge mai.
"La società ha bisogno di persone come te, Yahn."
La vecchia domestica non può vedere la mano del suo datore di lavoro che cerca la spalla del ragazzino, ma sente il suo tono morbido, sente la speranza, in quelle poche parole. Per la prima volta in vent'anni di servizio, la donna sente che le difese di Mister Hoggard si sono deliberatamente abbassate e trattiene il fiato.
"Che si fotta la società. Che muoiano tutti."


martedì 6 maggio 2014

Dormono, dormono sulla collina || Dormono, dormono sulla collina.

Il campetto da pyramid è abbandonato, la sera, troppo centrale per permettere ai drogati o agli ubriachi di passare il resto della notte in compagnia dei loro incubi, troppo periferico per attirare qualche malato di sport. Lui non l'ha scelto per questo, forse un poco di compagnia gli gioverebbe, ma se fosse così sarebbe tornato alla Shouye.
Lì, tra le mura sicure, dove tutto è ovattato, alienato, dove ci si può convincere che il resto del mondo viva così e che le sue ragioni siano le migliori, come sempre. Lì dove si può ignorare che non ci sia un appartamento vuoto, ad attenderlo, vuoto perché ogni persona che potrebbe riempirlo, oltre a lui, si rifiuta di farlo. 
Seduto sul campetto leggermente tiepido, vicino ad una panchina, non prova alcun risentimento per nessuno di loro. Non può offrire nulla se non promesse vuote, nulla che possa davvero interessare: affetto senza amore, denaro senza tenerezza, sicurezza senza confidenza. Il genere di cose che si offre ad una prostituta, non ad una persona cara, non ad un amico. Forse, neanche ad un conoscente.

E' difficile osservare le persone nelle loro scatole.

Il cielo sopra il campetto è spento, di un buio che tende al giallo opaco, senza stelle: gli edifici attorno sono in parte illuminati, le insegne lampeggiano, da lontano arriva il suono di qualche maxi schermo che proietta le ultime notizie. Non gli interessa guardare le persone nelle scatole, vorrebbe schiacciare loro e le loro insulse protezioni di cartone e poi andare avanti, tornare a dormire, magari, come avrebbe già fatto se fosse in grado di distogliere lo sguardo dal cielo sopra di lui.
Ha passato solo un'altra notte insonne in vita sua, senza motivi validi apparenti, nel giardino di casa sua, di casa dei padroni, di casa della sua famiglia. Ormai non sa più quale definizione venga per prima. Allora però, conosceva benissimo il motivo di quell'ansia, dell'angoscia ferrea allo stomaco. Lo ricorda ancora adesso, sentendo qualche schiamazzo lontano e il suono di un clacson, ripetuto.
Ricorda lo spiazzo della vergogna, così si chiamava, con un'accezione più volgare in Escravit che sembrava voler etichettare chiunque ci finisse come un eunuco, un pazzo.
Un criminale.

Sono un criminale perché cerco di vivere.

Ricorda quando ci è finito suo fratello, lì. Lui aveva quindici anni, il maschio più piccolo della famiglia ne aveva di gran lunga di meno, ma era stato bastonato lo stesso. Ricorda di essere corso avanti, senza eroismi, senza coraggio, solo con la quieta disapprovazione di qualsiasi spettatore con indosso un collare d'acciaio. Non erano rimasti quieti a lungo, era bastato che lui si buttasse su suo fratello, che lo coprisse col proprio corpo, che lasciasse cadere su di sé qualche colpo.
C'erano state proteste, insulti scandalizzati, ma nessuno aveva fermato la mano di chi stava continuando a colpire e lui non se lo aspettava.
Ricorda.
Ricorda che è arrivato suo padre, lo ha preso di peso, rigido, vergognoso. Lo ha preso di peso e l'ha portato via. Il bastone non si è fermato neanche allora, colpendo anche l'uomo, di striscio, sul viso.
Lui non se n'è accorto, probabilmente era troppo impegnato a urlare, a guardare suo fratello e a urlare, a chiedere di fermarsi e ad urlare, mentre sfilavano in un corridoio fatto di visi cupi e di sguardi di disgusto.
E' diventato rauco a forza di gridare, ma si è fermato solo a pochi metri da casa, quando ad accoglierlo c'è stata altra disapprovazione.
Avrebbe potuto dire molte cose, imbastire molte difese, ma ricorda di aver pensato il vuoto, di aver provato solo una strana rabbia malata. Ricorda di aver ritrovato la voce e di aver ricominciato a gridare, più forte.
Vi odio.
Vi odio.
Vi odio.

Ma non c'è nessuno da odiare, adesso, solo sé stesso.
Il terreno sotto di lui inizia a diventare freddo, le luci iniziano a spegnersi e il 'Verse intero sembra essersi concentrato particolarmente solo per farlo sentire dannatamente solo.
Forse è davvero molto egocentrico.

Gli hai detto di me e te?

L'angoscia dentro di lui si tramuta in una morsa, la morsa diventa in fretta un fastidioso impulso che sembrerebbe invitarlo a piangere, o a imprecare, o tutte e due le cose. Dovrebbe muoversi, magari prendere un pallone e iniziare a muoversi, a scacciare il freddo e l'immobilità, ma resta fermo, il pallone ruvido sotto le dita intirizzite. Un egocentrico solo può semplicemente sperare di riempire il vuoto con il proprio ego e credere di essere abbastanza forte da sopportare sé stesso.
Non gli ci vuole nessuno psicanalista, questa volta, per capire che non lo sarà mai.


venerdì 2 maggio 2014

Ma che la baciai, per Dio, sì lo ricordo, || e il mio cuore le restò sulle labbra

I fogli appesi tremano, visibilmente, in una visione traslucida che non pare del tutto corretta. L’ambiente nel complesso è avvolto da una patina sfumata che si muove e fa muovere ogni singolo oggetto. Vede a scatti, prima troppo chiaro, poi troppo scuro, tanto da fargli strizzare gli occhi come un cieco, senza sapere se davvero vedrà ancora, fino al prossimo lampo di luce.
Ad un certo punto qualcosa si muove sul serio, o forse è finto anche questo, anche la sua mano che si sporge a prendere i capelli neri di una donna. E’ tutto in un frammento di secondo, la pelle candida di lei, le labbra. Quelle labbra sembrano il dettaglio più importante di tutto il quadro, per quello che sospirano, per quello che promettono, per quello che danno. 
Finchè il corpo di lei non gli appare chiaro in tutta la sua interezza e allora le labbra sembrano solo UNO dei dettagli, un piccolo pezzo di un quadro più attraente e terribilmente in movimento. Gli ci vuole un poco per capire il perchè di quel lento sobbalzare. Ha qualcosa di ritmico, qualcosa di incredibilmente naturale, di primitivo, quasi.
Dietro di lei, una foto appesa e collegata da un filo rosso a tante altre sembra cambiare, l’individuo ritratto sembra sorridere.
A quel punto ai suoi sensi arriva il piacere, tutto, ed è come essere investiti da un treno.

Il mondo si offusca di nuovo, ma per un istante diventa dolorosamente chiaro, decisamente limpido. Improvvisamente ha tutto il quadro della situazione, dei respiri, dei gemiti, della pelle contro la pelle e i corpi che si muovono alla ricerca di qualcosa. Non devono essere lì per soldi, lui se lo sente subito: se lo fosse, il piacere sarebbe diverso, se lo fosse, lui non la starebbe stringendo come se si stesse aggrappando ad uno scoglio, come se temesse di vederla scivolare via.
C’è trasporto in quello che fanno e una nota di desiderio disperato che lui non riesce a classificare da nessuna parte. O forse sì, da una parte c’è la stessa cosa, ma i capelli di lei sono mori, non biondi e quella è la sua stanza, la camera raffinata e psichedelica della Shouye, non quella semplice e ancora più psichedelica del suo covo. Soprattutto, qui non c’è amore, non c’è quel terrore che prende l’anima e i muscoli nel porsi la domanda più importante di tutte: Quando finirà tutto questo?

C’è del desiderio, una strana contemplazione forse definibile come rispetto, la frustrazione, la pelle che viene graffiata e la stanza che ondeggia davanti a lui mentre le loro mani e le loro bocche continuano a fare ciò per cui sono stati addestrati molto bene a fare. Non c’è arte in quello che stanno compiendo, però, è tutto troppo carnale e tra di loro non c’è nessuna barriera, niente che li protegga dai respiri rochi l’uno dell’altra, niente che renda meno vivo il dolore dei graffi, niente che attutisca il piacere. Sembra quasi animalesco, al punto che per qualche istante lui ne rimane sconvolto, ma anche terribilmente affascinato. Se non fosse che lei è dannatamente bella, dannatamente elegante, anche in quel momento, direbbe di essersi ubriacato e andato a prostitute.
Ridicolo, non ne ha bisogno.
Forse sì.
Il respiro di lei vicino all’orecchio fa sentire lui come un animale, un animale senza alcun freno e nessun collare, intento a strapparle la pelle di dosso e a prendersi tutto il piacere che è possibile prendere. La reazione di lei è stupefacente quanto chiara: perchè coi gemiti adoranti, arriva la consapevolezza.

E’ tutto un sogno.


Ed è allora che la stanza esplode.

martedì 8 aprile 2014

Cominciai a sognare anch'io insieme a loro || poi l'anima d'improvviso prese il volo.



I giardini sono immensi, il cielo sembra quasi sgombro, tra i viottoli arrivano canti e rumori di locali pieni di gente. Non c'è il cielo di Clackline sopra la sua testa, ma va bene lo stesso: le stelle offuscate dalla luce artificiale sono meglio che niente, l'aria satura di profumi artificiali è meglio di quella piena dell'odore di sudore.
Per qualche istante, tutto sembra perfetto.
Sulle sue spalle c'è un peso considerevole, ma non è un carico destinato alle fabbriche di qualche padrone, non è un peso morto. Sua sorella scalcia, a cavalcioni sulla sua schiena, ridendo tra i suoi capelli e coprendogli gli occhi con le mani. Tra le sue dita, la strada si intravede appena e tutto sembra più avventuroso e bello. Nessuno dei due sa dove sono diretti, forse verso una panchina a caso in quegli immensi giardini, a giocare a fare i bambini e a ridere mangiando cibo poco salutare. O verso un locale, dove arriveranno i giornalisti, ma saranno ininfluenti, dove lei si arrabbierà e lui riderà e la trascinerà via, verso un bicchiere di qualcosa e lontana dai flash che potrebbero immortalare qualche parolaccia tutta Rimmer.
In quel momento, con il calore di lei contro la schiena e la strada davanti a loro, lui si sente l'uomo più felice del pianeta.



Nell'appartamento c'è ancora l'odore degli scatoloni, anche se di cartone non si vede più neanche l'ombra e le sue cose sono sparse in un ordine casuale, ma molto sensato. C'è già luce nella stanza, è tardi, forse dovrebbe alzarsi e lavorare. Discretamente, con il timore di chi si è appena affacciato da un incubo, muove appena le gambe, sgranchisce i piedi. Poi le mani, le braccia: ha tutto attaccato, tutto funziona. Prende un respiro profondo, lo rilascia e l'aria entra come una benedizione ed esce come una preghiera.

Va tutto bene.
E' una routine che non può evitare, appena la coscienza torna a farsi sentire: noiosa, ripetitiva, ma vitale, come ogni respiro.


Sono vivo, sono sano, sono libero.



Ha ancora gli occhi socchiusi, ma la sua mano trova facilmente il collo: trova la pelle, niente acciaio, niente dolori. E' libero di schiarirsi leggermente la voce, ma piano, senza fare rumore. In quella mattinata davvero inoltrata, non c'è timore di svegliare un'intera camerata di lavoratori, né una stanza piena zeppa di fratelli. In effetti, non c'è il timore di svegliare proprio nessuno: l'unica persona in quella stanza è sveglia da prima di lui e sta armeggiando con i fornelli appena montati. Ricorda di aver montato l'ultimo sportello solo ieri e ricorda anche di averci speso qualche imprecazione, due magliette e svariate ore. Ora vedendo Lee allungarsi per prendere una tazza nella mensola più alta, la gratitudine per quella cassetta del fai-da-te aumenta fino a livelli inumani.

La guarda finchè lei non si volta, forse le fischiano le orecchie, o forse il caffè è semplicemente pronto ed è davvero troppo tardi per stare ancora a dormire. Quando i loro occhi si incontrano, un pensiero gli inebria la mente come un respiro troppo profondo:


Dio, sono un uomo dannatamente fortunato

mercoledì 26 marzo 2014

Fu nelle notti insonni || vegliate al lume del rancore

E' già calato il sole, al di là dei tetti, da circa qualche ora.
E' già calato il sole ma Merissa lavora ancora sui propri abiti da rammendare e lavorerà ancora per molto. Ha passato tutta la mattina a rigovernare la casa della propria padrona, il pomeriggio a cercare di cucinare qualcosa con le verdure rovinate dal freddo intenso e imprevisto e adesso rammenda. Questo non è per i padroni, è per i figli, i figli che ricevono cure da lei solo adesso, quando il sole cala, dopo che i resti della cena di due giorni prima sono stati mangiati edigeriti malamente.
Adesso, dopo che tutti quei bambini, troppi bambini, sono andati a letto e non possono vederla china a cavarsi gli occhi sui loro abiti consunti, adesso lei si dedica a loro.
Ha un piccolo paio di braghe tra le mani che deve appartenere al penultimo arrivato della famiglia, perchè l'ultimo è ancora fin troppo piccolo anche solo per porterle, un paio di braghe decenti.

Dio, perchè così tanti figli?

E' una domanda che non ha il coraggio di pronunciare ad alta voce, tanto è blasfema. Una famiglia numerosa è un Paradiso per qualsiasi essere vivente sulla Terra. Eppure ci sono delle volte, molte volte, negli ultimi mesi, in cui Merissa guarda quel gruppo di bambini vestiti male e troppo affamati e si chiede davvero se sia un bene che siano al mondo.
Lei dopotutto ha superato la trentina, ormai è più vicina ai quaranta di quanto le piacerebbe ammettere e la sua bellezza si è consumata a fare figli e lavorare. Non è mai stata una grande cultrice della propria bellezza, è vero, ma ora che l'ha persa in un certo senso le manca, è come qualcosa che è morto, dentro e fuori di lei e che in cambio le ha lasciato solo cinque figli da sfamare.
Forse è la stanchezza, perchè la stanchezza fa diventare tutti più cattivi, ma non le sembra sia stato un grande affare.
Nella camera da letto vuota, che aspetta ancora il ritorno del marito dalla fabbrica, la lampada ad olio rischiara solo la sua postazione, arroccata come una bestia ferita su di una sedia a dondolo, davanti al grande letto matrimoniale intatto. La stanza è povera, quel letto è un lusso che non tutti gli schiavi hanno, un regalo di nozze della famiglia di lei, la sedia l'ha intagliata suo marito. E' tutto fatto con le loro mani, tutto sudato, dietro a ogni oggetto e ad ogni soprammobile c'è del lavoro, c'è la fatica. E non c'è neanche un grammo di polvere, tra l'altro.
Merissa lavora in quella stanza che ha imparato a considerare accogliente, lavora e si consuma le dita, strizza gli occhi per la stanchezza e ogni tanto guarda i piccoli quadretti religiosi appesi dappertutto in camera. C'è n'è uno un poco più grande, proprio sopra la testiera del letto, raffigurante Gesù, che lei all'inizio trovava inappropriato, per le faccende da camera.


"Mamma?"

Un appellativo che ha sentito troppe volte, ma che comunque riconduce subito ad una delle sue creature, senza sbagliare.
Davanti a lei c'è un bambino di circa sei anni che, nonostante il cibo non abbondante e il vestiario modesto ha comunque avuto la sfacciataggine di mettere su due spalle promettenti e un fisico robusto, come i suoi fratelli. Lei si sta già chiedendo come abbia fatto a partorire un cosetto tutto muscoli e ossa robuste, ma c'è altro che la distrae, prima.
"Cosa ci fai fuori dal letto? Domani devi andare con tuo padre, la sveglia è all'alba." dice, in un tono asciutto che non ha maternità. Non si può pretendere maternità da una persona con più di dodici ore di lavoro alle spalle e cinque figli a cui badare. 
"Mamma, posso chiederti una cosa?" il bambino la guarda coi piccoli pugni serrati, le spalle leggermente ingobbite. Sta preparando qualcosa che a lei non piacerà e lo sa già, ma ci sta provando lo stesso, con la stessa testardaggine di un animale male addestrato.
Merissa alza gli occhi al cielo brevemente, per poi riportarli sulle braghe ancora da rammendare. Dopo quelle ne avrà altre, poi magliette, gilet, qualche camicia del marito: sta chiaramente dicendo al figlio che non ha tempo per lui, che non ha la pazienza per ascoltare dei capricci. Non c'è posto per i capricci, in una famiglia di schiavi.
"Mamma, posso rimanere con te, domani?" il tono è così flebile che non attirerebbe neanche la sua attenzione, ma l'eresia di quella domanda è in grado di farla sobbalzare. L'ago trafora due strati di stoffa e punge il dito della donna, non in profondità, ma è abbastanza. E' tutto abbastanza: è abbastanza tardi, lei è abbastanza stanca e tutti quei vestiti da rammendare sono abbastanza per farle acquisire la santità. 
"Yahn, per l'amor di Dio! Vai a dormire, domani devi andare a lavorare con tuo padre!" la sua replica è stizzita, ripetitiva, ma Merissa non sa dare altre spiegazioni, al momento, nè risposte a quella domanda assurda. Ci sono di confini per la comprensione dei genitori e in una famiglia di schiavi il confine è un muro alto, massiccio e tremendamente incombente.
"Ma mamma per favore!" quel piccolo moccioso prende un respiro profondo, il segnale che annuncia una supplica lunga, piena di paura che venga interrotta, "Non voglio andare, ti prego, non farmi andare. Posso stare qui, posso rendermi utile, ti prego mamma, non voglio!"
La sua voce infantile ha un qualcosa che le dà sui nervi, o forse è solo la stanchezza, o i vestiti ancora da rammendare. Ma Merissa è una cristiana, una devota, e Dio insegna sempre la pazienza e la calma. Come Padre Garvier, che non manca mai di ripeterle che prima di rispondere male a qualcuno, bisogna sempre cercare di mettersi nei suoi panni, con l'umiltà di Nostro Signore.
Merissa guarda quel bambino che la sta implorando per ragioni assurde e non sente alcuna compassione, nè compartecipazione per quello stato tanto disperato da risultare sconcertante. Tuttavia, decide almeno di fingere una calma che non ha.
"Yahn." lo richiama, il tono asciutto che non lascia spazio alla gentilezza, ma solo alla sopportazione. E per quel bambino dagli occhi sgranati è un segnale di speranza, nonostante tutto.
"Ti prego mamma. Ho sentito che se fai un errore ti bastonano o ti frustano. Non voglio essere bastonato, mamma, non voglio lavorare, ti prego!" nella sua voce c'è il puro panico e questo rende tutto più assurdo, più alienante. 
Merissa non ha mai discusso gli ordini del padrone o quelli di Dio, nè ha mai messo in discussione la sua buona stella. E' nata in una parte favorevole del pianeta, una fortuna che non tutti hanno, e ha un marito, una casa, dei figli, un padrone mite. Si ripete la lista nella mente due volte, quasi tre, prima di tornare a guardare il figlio, ma il suo sguardo deve avere qualcosa di poco rassicurante, perchè il bambino indietreggia, con la saggezza dell'infanzia.
"Yahn, vai a letto."
"Mamma, per favore..." negli occhi chiari di lui appaiono lacrime di terrore e frustrazione, una frustrazione che la sua giovane età non può capire.
"Vai a letto." la voce di Merissa non si alza, come se non ce ne fosse bisogno. Anzi, peggio, come se non le interessasse.
E' questa consapevolezza che arriva come qualcosa di etereo che fa arretrare il bambino, come se si fosse scottato. L'indifferenza.

Non ci sono proteste contro quella, nè difese, c'è solo la ritirata. Lentamente, quel piccolo uomo non ancora cresciuto si volta e inizia ad avviarsi verso la porta aperta, con la stessa mestizia di un cane rimproverato. Ci sono poche speranze che i suoi fratelli non abbiano sentito, nessuna che sia richiamato prima che arrivi ad attraversare la soglia. 
"Yahn?"
Si volta appena, le spalle robuste che sussultano per la speranza, il miracolo. Le sue guance sono appena bagnate, gli occhi rossi di un pianto silenzioso appena agli inizi.

"Non farti vedere da tuo padre in questo stato. Sarebbe molto deluso."

lunedì 24 marzo 2014

Perché dissi che Dio imbrogliò il primo uomo || lo costrinse a viaggiare una vita da scemo

Al tavolo di Yahn ci sono altri cinque ragazzini, cinque creature di età compresa tra i dieci e i tredici anni, intenti a filare. Nel grande stanzone della fabbrica, ci sono altri dieci tavoli così, in tutto sono undici.
Ci sono approsimativamente sei ragazzini ad ogni tavolo, undici per sei sessantasei. Ad ogni tavolo c'è più o meno la stessa variabile di età che c'è a quello dove lavora lui e il lavoratore più giovane ha nove anni. Il più vecchio quindici.
Quindi la media d'età stimata di tutto lo scompartimento è di dodici anni.
Dodici anni.
Vuol dire che lui è appena sotto la media, ma è comunque tra i più grandi e molto presto, con buone probabilità, sarà trasferito ad un altro scomparto della fabbrica, perchè la corporatura media, ammettendo che si possa calcolare in termini statistici, è di...


Mi sanguinano le dita. Mi sanguinano le dita, fa male. Perchè non posso avere dei cerotti? Perchè non posso chiedere di essere visto da un medico? Potrebbero cadermi le mani e nessuno se ne accorgerebbe. No, forse se ne accorgerebbero vedendo che ho smesso di filare...



La corporatura media si può calcolare, tutto si può calcolare, anche quanti giri sta facendo la piccola ruota a manovella, quanti giri ancora farà, quando si romperà. Ce ne sono sei, una per ragazzino, e tutte girano ad una velocità stabile, con un ronzio di sottofondo che sembra quasi quello di un insetto, o di un motore silenzioso. Tutte ansieme compongono un piccolo concerto, il padrone lo definisce con orgoglio "Il suo concerto di operosità e benessere".



 Operosità e benessere, operosità e benessere, operosità e dita rotte e collare al collo e freddo. Fa troppo freddo qui, il ferro del collare punge, fa male. Si sta attaccando alla pelle, lo so, e succederà com'è successo a Jean, che gli dovranno staccare la carne e farà ancora più male...



  Le dita del ragazzino tremano, i suoi occhi lucidi si sollevano dal suo lavoro e guardano il resto della sala attraverso i raggi della ruota che continua a girare. In quel magazzino le pareti sono grigie, metalliche e hanno l'odore della lamiera bruciata. Per terra c'è uno strato di sabbia e lana scartata, di terra e di sporco, ma ora la maggior parte del pavimento è occupato dalla brina. Non c'è riscaldamento in quella parte della fabbrica e la porta viene aperta spesso e gli spifferi passano impietosi con l'ululare del vento. Fuori nevica, ma dentro è come se il tempo si fosse fermato.

Dalle bocche dei ragazzini escono piccole volute di vapore: ognuno di loro ha un collare al collo, alcuni iniziano a mostrare i primi segni dei geloni, sotto la luce impietosa di undici lampadine che oscillano sopra i tavoli e allungano tutte le ombre.
Nessuno di loro ogni tanto guarda al di sopra della propria ruota, nessuno di loro sbircia il lavoro del proprio vicino. Yahn vede i capelli arruffati di ognuno, il profilo del naso, un accenno di sguardo che tuttavia non incontrerà mai il suo.


Sei strano, strano, strano. Loro non pensano. Non fanno i conti, a loro non interessa quanti tavoli ci sono in una stanza, quanti ragazzini ci sono ai tavoli, non interessano le medie, le statistiche, i numeri. Sei strano. Strano, strano, strano, strano...



 "Occhi sulla ruota ragazzo."

E' una frase senza alcuna fantasia, ma non ci vuole originalità per spaventare un ragazzetto di dodici anni. Yahn china di nuovo il capo e incassa la schiena, facendo rimettere in moto la ruota, sperando che questo basti ad evitare un colpo. Di solito funziona, ma ci sono delle variabili, variabili che neppure lui riesce a calcolare, fattori imprevedibili come l'umore del guardiano di turno, il numero di bastonate inferte fino a quel momento, la presenza del padrone.
Nessun altro ragazzino si gira quando lui viene redarguito e nessuno si girerà nel caso venga bastonato, perchè è così che funziona, in fabbrica.


Così funziona: tu lavori, la ruota gira, la lana viene filata. Se non lavori vieni bastonato, se vieni bastonato fa male. Tanto male. E se fa male potresti non essere in grado di lavorare e se non sei in grado di lavorare ricevi più bastonate e la tua schiena si spezzerà, com'è successo ad alcuni.



Il colpo non arriva, la ruota riprende a girare ad una velocità sostenuta, la lana filata continua ad accumularsi e il guardiano se ne va. Tornerà a fare il giro probabilmente tra qualche minuto, tre minuti e trentasette secondi per essere precisi.

Nessuno si muove, nessuno tossisce, nessuno parla. Mancano ancora molte ore alla fine del turno e l'unico modo per impiegarle è cercare di calcolare quante volte passerà il guardiano per il suo tavolo, cercando di non pensare a quanti colpi di bastone caleranno nel frattempo. Calcolare senza pensare a tutto il resto, ignorando la voce che non può davvero ignorare, perchè è la sua.
E lui ha ragione.


Mancano tre ore.

In ogni ora ci sono sessanta minuti.
Mancano centottanta minuti.
In centottana minuti il guardiano passerà circa sessanta volte all'incirca.
In quelle sessanta volte...


...